Se siete fans di Stephon Marbury allora leggerete una brutta notizia; se siete fra quelli che vedreste bene il soggetto di cui sopra in un campetto di cemento ma non in un parquet a prendere vagonate di Presidenti in verde, allora potreste godere a breve.
Starbury è pronto al rientro nel basket giocato dopo la brevissima parentesi (neppure così negativa) coi Celtics. Sta bene, lo dice lui stesso. Solo che, date le zero offerte ricevute da squadre Nba, le zero offerte ricevute dall'Europa (nella quale sperava parecchio), le zero offerte ricevute dalla Corea del Nord (!!) il figlio di Coney Island deve ora valutare l'unica offerta ricevuta in questi mesi: quella di Brandt Andersen proprietario degli Utah Flash, militanti nella D-League. Proposta arrivata in via informale, per mezzo Twitter (fra un po' si andrà al cesso usando Twetter o Facebook): "Sono il proprietario degli Utah Flash, perché non vieni a giocare con noi? I tifosi lo adorerebbero".
Ora, seriamente, va bene che non vedremo mai il miglior Stephon Marbury (a New York ci avevano sperato davvero, sarebbe stato davvero più di una leggenda) e ci dovremmo accontentare di quanto ci ha fatto divertire negli anni in cui non faceva il bambino viziato in punizione, va bene che nessuno gli affiderebbe più una squadra e nessuno lo scambierebbe più per Ray Allen, va bene ammettere che ha una testa a cui sono mancati una buona dose di paletti, ma vederlo in D-League, sinceramente, sembra troppo: non è quello il suo ambiente, non sono quelli i parquet in cui uno come lui deve palleggiare e umiliare gli avversari a suon di crossover. Dovevano mandarlo prima in punizione, non a 32 anni.
Ma perché si è permesso che un talento simile venisse buttato alle ortiche?
P.S.
Non sono suo tifoso (come direbbe Dan Peterson).
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